domenica 20 gennaio 2013

"Grazie giudici, li arrestiamo noi". Così l'Italia ha difeso (male) i marò



Dalle motivazioni del verdetto emerge la linea morbida del nostro governo e una lettera ossequiosa alle autorità indiane che 5 giorni dopo sbatteranno dentro i soldati

La Corte suprema indiana ammette che nel tratto di mare dove i marò hanno sparato c'erano stati attacchi dei pirati e il peschereccio delle presunte vittime dei fucilieri di marina non poteva navigare in quella zona non essendo regolarmente registrato. Lo riporta, nero su bianco, l'ordinanza di venerdì sul caso di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Oltre cento pagine firmate dai giudici Altamas Kabir, presidente della Corte suprema, e J. Chelameswar, che svelano diverse «chicche» dell'imbarazzante vicenda. 
Il lungo testo dell'ordinanza della Corte suprema, in possesso del Giornale, si apre con l'ammissione che la zona dell'incidente è a rischio bucanieri. «Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a un acuto incremento degli atti di pirateria in alto mare al largo della Somalia - scrivono i giudici - e anche nelle vicinanze delle isole Minicoy che formano l'arcipelago di Lakshadweep». Territorio indiano di fronte alla costa sud occidentale dove si trova lo stato del Kerala, che per quasi un anno ha illegalmente trattenuto i marò, secondo la Corte suprema di Delhi.
Al punto 29 dell'ordinanza si scopre che il peschereccio St. Anthony, di circa 12 metri, scambiato dai marò per un vascello pirata, risulta registrato solo nel Tamil Nadu, un altro stato indiano. Però «non era registrato secondo l'Indian Merchant Shipping Act del 1958 (la normativa che regola la navigazione mercantile ndr) e non sventolava la bandiera dell'India al momento dell'incidente». L'importante requisito del rispetto della normativa del 1958 avrebbe permesso al peschereccio di navigare «al di là delle acque territoriali dello stato del'Unione (il Tamil Nadu ndr) dove l'imbarcazione era registrata». Questo significa che il 15 febbraio il St. Anthony non poteva far rotta nel tratto di mare dove ha incrociato i marò imbarcati sul mercantile italiano Enrica Lexie.
Al punto 6 dell'ordinanza viene sottolineata l'apertura dell'inchiesta della procura di Roma contro Girone e Latorre e la pena prevista: «Per il crimine di omicidio è di 21 anni almeno di reclusione». Forse ai marò conviene rimanere in India. 
L'ordinanza cita ripetutamente l'avvocato Harish N. Salve, che si batte per la giurisdizione. «La Repubblica italiana ha un diritto di prelazione nel processare» i marò. Il legale chiama in causa due convenzioni internazionali, il Maritime Zones Act e l'Unclos, ambedue riconosciuti dall'India. L'articolo 27 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos) sancirebbe che l'India non può processare i marò e tantomeno arrestarli per «un reato commesso a bordo di una nave straniera in transito». L'articolo 97 specifica che può procedere solo «il paese di bandiera della nave o lo stato di nazionalità delle persone coinvolte». Un altro cavallo di battaglia dell'avvocato Salve è l'articolo 100 dell'Unclos che invita «tutti i Paesi a cooperare nella massima misura alla repressione della pirateria al di là della giurisdizione dei singoli Stati». 
Una chicca riportata nell'ordinanza è la nota verbale 95/553 dell'ambasciata italiana inviata il 29 febbraio scorso al ministero degli Esteri indiano. Undici giorni prima, Girone e Latorre erano stati prelevati dalla polizia a bordo del mercantile Lexie fatto rientrare con un tranello nel porto di Kochi. I nostri diplomatici ribadiscono la giurisdizione italiana e l'immunità dei fucilieri di marina, ma «accolgono con favore le misure prese dal chief Judical Magistrate di Kollam per la protezione della vita e dell'onore dei militari della marina italiana». Peccato che cinque giorni dopo Girone e Latorre sono stati prelevati dalla guest house della polizia che li "ospitava" agli arresti e sbattuti in galera.
www.faustobiloslavo.eu
I marò italiani Salvatore Girone e Massimiliano Latorre

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